Gli occhi sono sempre stati più di un organo di senso. Nell’arte, sono soglie — tra sé e l’altro, tra l’interno e l’esterno, tra il visibile e il nascosto. L’occhio non si limita a vedere: definisce ciò che viene visto. Porta con sé potere, intimità, vulnerabilità e giudizio, tutto nello stesso gesto.
Dai miti antichi al surrealismo moderno, gli artisti hanno usato l’immagine dell’occhio per interrogare l’atto stesso del percepire. Dipingere o scolpire un occhio significa esplorare cosa significhi essere consapevoli — e cosa significhi essere visti.
L’occhio come simbolo antico
Nella mitologia, l’occhio è sempre stato ambivalente: divino e pericoloso insieme. L’Occhio di Horus proteggeva dal male, mentre lo sguardo di Medusa pietrificava chi lo incrociava — la visione come punizione. Nell’iconografia cristiana, l’occhio onniveggente era racchiuso in un triangolo di luce, simbolo di conoscenza assoluta.

In tutte queste rappresentazioni, l’occhio detiene un duplice potere: protegge e domina. Vedere significa conoscere — e conoscere significa possedere.
Questa tensione sopravvive ancora nell’arte contemporanea. Gli occhi, quando appaiono in una composizione, creano inquietudine perché ribaltano il ruolo dello spettatore: chi guarda diventa osservato. L’opera restituisce lo sguardo.
Visione come emozione
Dal punto di vista psicologico, la visione non è solo cognizione, ma anche emozione. Non vediamo in modo neutro: proiettiamo. La nostra percezione è filtrata da paura, desiderio, memoria. La stessa immagine può sembrare dolce o minacciosa a seconda di chi guarda — e perché.
Nei dipinti originali pieni di occhi — sparsi come fiori o nascosti tra forme surreali — questa psicologia prende forma. Lo sguardo diventa paesaggio. Ogni pupilla, ogni riflesso, è un frammento di attenzione. Alcuni occhi sfidano chi osserva; altri si chiudono verso l’interno, suggerendo introspezione o malinconia.
Riempire una tela di occhi non è un gesto di voyeurismo, ma di empatia. È un tentativo di mappare il sentire attraverso la vista — di trasformare la consapevolezza in ritmo visivo.
Potere, controllo e vulnerabilità
La dinamica del guardare ha sempre affascinato gli artisti. Chi ha il diritto di guardare? E chi viene guardato? Nel ritratto tradizionale, lo sguardo stabiliva lo status: il soggetto sicuro di sé guarda avanti, quello anonimo abbassa gli occhi.

Nell’arte moderna e surreale, questo equilibrio si frantuma. Gli occhi si liberano dal volto, fluttuano nello spazio, diventano pensieri visivi. Non appartengono più a una persona sola, ma alla coscienza collettiva — frammenti di percezione che si osservano a vicenda.
Questa frammentazione rivela un paradosso: vedere tutto può significare anche perdere il fuoco. L’occhio che percepisce troppo rischia di diventare cieco per eccesso. La visione diventa allo stesso tempo strumento di controllo e confessione di fragilità.
Quando dipingo occhi, li penso come specchi inquieti — simboli di consapevolezza e insieme di esposizione. Catturano l’attenzione, ma la restituiscono.
Lo sguardo perturbante
C’è qualcosa di intrinsecamente inquietante negli occhi fuori contesto. Galleggiano tra il vivo e il simbolico. Freud definiva questa sensazione das Unheimliche — l’inquietante familiarità, ciò che è noto ma appare estraneo.
Il surrealismo ha abbracciato pienamente questa sensazione, trasformando lo sguardo in una poesia visiva del disturbo. In molti lavori surreali, occhi fluttuano tra fiori, metalli o texture cosmiche — osservano senza appartenere. Rappresentano la psiche stessa: aperta, vulnerabile, sempre vigile.
Questa immagine parla molto anche alla sensibilità contemporanea. L’occhio, come metafora, incarna la nostra esposizione costante — ai media, agli altri, a noi stessi. Viviamo in una cultura della visibilità, dove tutto può essere visto, ma la vera percezione resta rara.
La ripetizione degli occhi nell’arte diventa quindi un gesto di resistenza: riappropriarsi dell’atto del guardare.
Visione come connessione
In molte delle mie opere, gli occhi si fondono con forme botaniche e simboliche — petali che diventano ciglia, radici che si intrecciano come vene. Mi attrae questa fusione tra organico e percettivo. La visione, per me, non è un atto intellettuale ma emotivo — un potere gentile che connette invece di dominare.
Un occhio circondato da fiori non osserva per controllare, ma per comprendere. Suggerisce empatia attraverso la consapevolezza, percezione come cura. Le superfici metalliche e i riflessi lo rendono vivo — un essere che guarda e si lascia guardare.
In uno spazio, un dipinto simile cambia atmosfera. Sembra ascoltare tanto quanto osservare, creando un dialogo silenzioso tra ambiente e presenza.
Gli occhi nell’arte ci ricordano che vedere non è mai un atto passivo. È partecipazione, proiezione, interpretazione. Che siano sacri, surreali o psicologici, gli sguardi continuano a definire il modo in cui ci relazioniamo — alla bellezza, agli altri, alla verità.
La visione non è solo un senso: è un’emozione. E in ogni occhio dipinto c’è sia una domanda che un riflesso: cosa vediamo — e cosa, nel frattempo, ci vede?