Sono sempre stata affascinata dalle contraddizioni — la morbidezza che nasconde un taglio, la bellezza che provoca invece di rassicurare.
Quando guardo l’arte Rococò, vedo tutto questo: i toni pastello, i volti cipriati, la seta e gli ornamenti — e sotto di essi, un’intelligenza erotica sottile.
Il mondo Rococò non era solo decorazione; era un linguaggio codificato, consapevole, dove il piacere diventava al tempo stesso rito e ribellione.
Quando dipingo, sento spesso di dialogare con quella tradizione — non imitandola, ma riecheggiandone lo spirito. Il modo in cui trasforma l’eccesso in emozione, la sensualità in teatro.
Le mie composizioni floreali surreali — volti semi-coperti da fiori, bagliori metallici su rosa pallidi, trucco teatrale, linee serpentine — portano con sé proprio quell’impulso Rococò: la convinzione che la bellezza possa essere allo stesso tempo seduttiva e sovversiva.
Il linguaggio dell’ornamento
Il Rococò, nato nella Francia del XVIII secolo, è stato a lungo liquidato come frivolo — una reazione leggera al rigore del Barocco. Ma dietro la sua superficie decorativa si nasconde un mondo simbolico.

Le curve floreali, le perle, i cuori e gli specchi che riempivano dipinti e interni non erano semplici ornamenti. Parlavano di desiderio, illusione, autocoscienza. Gli specchi in particolare — un motivo che ricorre spesso anche nel mio lavoro — simboleggiano vanità e consapevolezza insieme: il bisogno di vedersi e di essere visti.
Nelle mie opere, quello specchio diventa psicologico. Le superfici lucide, i riflessi metallici e i bagliori cromati con cui lavoro giocano con la percezione — non mostrano un’immagine nitida, ma la deformano. Come nel Rococò, l’identità si trasforma in spettacolo.
I fiori, poi, erano un altro linguaggio nascosto. Le rose e i tulipani, dipinti in morbide sfumature, rappresentavano sensualità e fragilità — bellezza già sul punto di svanire. Penso ai miei motivi botanici nello stesso modo: non come ornamento, ma come linguaggio emotivo. Ogni petalo, ogni radice diventa sentimento — a volte ferito, a volte ribelle.
Erotismo e femminilità teatrale
Il Rococò celebrava il corpo, ma non lo mostrava mai direttamente. Era un mondo di allusioni: sguardi, gesti, nastri, risate. L’erotismo viveva nel suggerire, non nel rivelare.

È proprio questa tensione che mi affascina. La distanza tra ciò che si mostra e ciò che si lascia intendere — tra la guancia cipriata e il labbro morso.
Nei miei ritratti uso spesso trucco teatrale e ciglia inferiori accentuate per catturare quella stessa ambiguità. Gli occhi diventano maschera e messaggio. Invitano, ma non si concedono.
È un erotismo giocoso — mai esplicito, ma carico di energia emotiva. È controllo e abbandono insieme.
Gli artisti Rococò sapevano che il desiderio non è solo fisico, ma estetico — vive nei colori, nelle superfici, nei dettagli. La stessa dualità scorre nelle mie opere, dove la sensualità si mescola al surrealismo e la dolcezza si accende di tensione.
Lo specchio come anima e palcoscenico
Tra i simboli Rococò, nessuno è più attuale dello specchio.
François Boucher e Jean-Honoré Fragonard dipingevano donne che si riflettevano — insieme soggetto e oggetto del desiderio. Lo specchio non era vanità, ma coscienza estetica.
Nelle mie opere lo specchio appare in forma implicita — nelle superfici lucide, nei riflessi metallici, nei cromi che catturano la luce. Funzionano come ornamenti moderni: instabili, cangianti, vivi.
Ciò che riflettono dipende dal punto di vista — letteralmente e emotivamente.
Questa instabilità mi affascina perché è umana. Riflettiamo tutti qualcosa — aspettative, fantasie, sguardi altrui.
Creare un’arte che rifletta senza chiarezza mi sembra il modo più onesto di raccontare l’identità.
I fiori come codice emotivo
Se lo specchio è l’intelletto del Rococò, i fiori ne sono il cuore.
Ogni composizione sbocciava — non solo di botanica, ma di allusione. Ghirlande intorno ai corpi, petali accanto alle perle, rose come simboli di seduzione e segretezza.

Quando dipingo fiori, penso a quella lingua antica ma la traduco in chiave contemporanea. I miei fiori non sono semplicemente belli: sono psicologici. Alcuni troppo vivi, quasi neon. Altri metallici, feriti, intrecciati a serpenti.
Portano con sé emozione: la tensione tra crescita e decadenza, innocenza e pericolo.
Mi piace immaginarli come esseri che ricordano — resti di miti e modernità intrecciati insieme.
Lo spirito dell’eccesso
Ciò che amo di più del Rococò è la sua mancanza di scuse per la bellezza.
Non fingeva moralità né minimalismo. Era un’arte dell’abbondanza — di forma, sentimento e immaginazione. In questo senso, condivide la stessa linfa del surrealismo e del massimalismo contemporaneo.
Quando creo, seguo la stessa logica. Lascio che la composizione trabocchi, che il colore superi i limiti. Cromo, pastello, ombra, fioritura — tutto si stratifica finché diventa quasi eccessivo. Perché a volte troppo è l’unico modo per arrivare alla verità.
C’è un’onestà particolare nell’esagerazione. Il Rococò lo sapeva: sorrideva al controllo.
Tra piacere e riflessione
Alla fine, la leggerezza e l’erotismo del Rococò non erano superficialità — ma una forma di consapevolezza.
Abbracciare il piacere, celebrare la bellezza, mescolare ironia e sincerità — tutto questo richiede coraggio.
È per questo che torno spesso a quell’immaginario, anche inconsciamente. I fiori, gli specchi, i volti teatrali non sono nostalgia — sono promemoria. Ricordano che l’arte può essere sensuale senza essere vuota, che l’emozione può indossare il trucco e restare autentica.
Perché la gioia, la seduzione e la bellezza — se vissute con consapevolezza — non sono fuga.
Sono resistenza.