Non ho mai avuto fiducia nella perfezione. È elegante, ma raramente viva.
Nell’arte, come nella vita, ciò che mi colpisce davvero sono le imperfezioni — la pennellata che scivola, la texture irregolare, il colore che si espande oltre il limite. In quei momenti sento la presenza umana. Sono segni che qualcosa di reale ha attraversato la superficie.

Quando dipingo, non cerco la perfezione. Cerco il battito. Voglio che l’opera respiri, che sembri vissuta, come se ricordasse qualcosa. Forse è per questo che amo l’estetica dell’imperfezione: perché lascia spazio all’emozione, senza l’armatura del controllo.
In una cultura che idolatra il finito e il filtrato, l’imperfezione diventa un atto di libertà.
La bellezza dell’incompiuto
Nella storia dell’arte, molti hanno giocato con l’idea dell’incompiuto.
Nell’estetica giapponese, il concetto di wabi-sabi celebra la bellezza dell’impermanenza — la ciotola scheggiata, il tessuto scolorito, la linea spezzata. I pittori del Rinascimento lasciavano visibili i disegni preparatori sotto le velature. I simbolisti e gli espressionisti, secoli dopo, abbracciarono la distorsione come forma di verità.

L’imperfezione è sempre stata l’ombra dell’autenticità. Ricorda che tutto è temporaneo, che la bellezza non è simmetria ma presenza. Forse è per questo che gli affreschi crepati, le ceramiche rovinate o i tessuti logori ci attraggono tanto: contengono il tempo.
Nelle mie opere, cerco di mantenere visibili queste tracce. Quando il colore cola o la superficie metallica riflette in modo irregolare, non correggo. Quelle irregolarità sono parte della storia. È lì che l’emozione entra nella materia.
Il linguaggio emotivo delle imperfezioni
Dal punto di vista psicologico, l’imperfezione comunica sincerità. Le superfici lisce sembrano lontane; le superfici ruvide, umane. Il cervello reagisce ai pattern irregolari — l’asimmetria, le stratificazioni, le variazioni tonali — come segni di profondità. Ecco perché gli oggetti imperfetti ci sembrano più accoglienti.
Nella pittura, amo accostare colori che “non stanno bene insieme”: neon accesi vicino a toni terrosi, oro sacro accanto al grigio industriale. Il contrasto crea vibrazione — quella sensazione viva e imprevedibile che tiene l’occhio in movimento.
Questa tensione rispecchia la condizione umana. Non siamo costruiti a linee rette. Portiamo contraddizioni, memoria, cambiamento. Creare arte che nasconda queste fratture mi sembra falso — come fingere che la vita sia più pulita di ciò che è.
L’imperfezione come identità
Molte delle mie opere esplorano l’identità attraverso la distorsione.
I volti che dipingo non sono mai simmetrici. Il trucco è teatrale, esasperato — ciglia inferiori come colature di scena, capelli che sembrano allo stesso tempo retrò e futuristi, sguardi che sanno troppo. Questi dettagli non sono errori: sono linguaggio. Rifiutano l’idea di una bellezza impeccabile.

In un certo senso, parlano di libertà. La teatralità, l’intensità, la stranezza diventano un’estetica dell’autenticità. Penso alle donne dei ritratti rinascimentali, imprigionate nell’immobilità, e a come ancora oggi la femminilità si misuri con quell’immagine di controllo. Le mie figure la infrangono. Sono emotive, imperfette, visibilmente umane.
Lo stesso vale per gli interni e per gli oggetti. Una stanza con superfici imperfette — lino spiegazzato, ceramiche scheggiate, cornici disuguali — non sembra disordinata, ma viva. Contiene storia, calore, presenza. La libertà, nello spazio come nell’arte, nasce dal permettere alla bellezza di essere incompleta.
La libertà nel processo
C’è una forma di liberazione che arriva quando smetti di controllare il risultato.
Quando dipingo, lascio che sia l’istinto a guidarmi — una pennellata che chiama l’altra, un errore che diventa ritmo. È meno progettazione e più fiducia.
Quell’imprevedibilità dà all’opera il suo battito. Le colature, le linee storte, i colori troppo intensi — tutto diventa traccia di un gesto. Di un momento. Di un’imperfezione che testimonia la presenza.
Forse è per questo che l’arte imperfetta ci tocca: perché porta con sé non solo ciò che è stato creato, ma il come — ogni esitazione, ogni sbaglio trasformato in significato.
Perché l’imperfezione conta oggi
Nell’epoca della perfezione digitale, dove ogni immagine è corretta, il grezzo e l’imperfetto assumono un nuovo valore. Ci ricordano la realtà — non quella che si adatta ai filtri, ma quella che respira, si incrina, cambia.
La libertà, per me, nasce da questa accettazione. Creare, vivere, decorare senza cancellare le tracce della vita.
Lasciare che le impronte restino visibili.
Perché, alla fine, l’imperfezione non è il contrario della bellezza.
È la parte della bellezza che ci appartiene davvero.